Nella celebre incisione di Durer Melancholia 1 (1514), le pieghe della veste del personaggio femminile, le morbide curve del cane accovacciato e in generale certe linee sinuose dell’immagine sono integrate ai severi e capillari strumenti di misurazione, a delle forme geometriche e ad alcuni ben precisi numeri (nell’immagine è infatti presente quello che si suole riconoscere come un “quadrato magico”).
Il sentimento della misura, del controllo, dell’ordine, svolgono in effetti nell’immagine di Durer un ruolo chiave.
Il film di von Trier, incentrato sulla figura di una donna affetta da malinconia (depressione), sembra proprio contenere in sé le due anime rinvenibili nell’incisione di Durer: quella del caos (il disordine, il non misurabile, la Natura) e quella del cosmos (la misura, la geometria, l’ordine razionale).
Nella depressione (come del resto in molte patologie) in effetti la componente ‘scientifica’, biologica, statistica, si mescola con la Natura, con il sopravvento, con la componente emotiva, irruenta quanto impalpabile. Laddove i libri di psichiatria finiscono, lì inizia l’imprevedibile ed enigmatico fluttuare-vagare del soggetto depresso.
Una giovane sposa, Justine, sta vivendo i festeggiamenti coloriti e chiassosi del suo matrimonio con un innamoratissimo sposo, Michael, timido ed impetuoso. L’ambientazione, un luogo sontuoso ma anche decisamente insolito (una villa con annesso campo da golf con diciotto buche), ci appare fin da subito scenografica e stilizzata, e proprio per questo algida e innaturale.
I personaggi che ruotano, come dei pianeti – secondo un impianto di maggiore o minore vicinanza rispetto al centro molto evidente allo spettatore – attorno a Justine, svolgono tutti un ruolo ben preciso.
Il marito, Michael appunto, rappresenta l’amore incondizionato, immaturo, appassionato, spontaneo, dirompente, sincero. E’ il tipico amore giovanile del giovane shakespeariano.
Il padre di Justine, Dexter, rappresenta l’amore paterno saggio e benevolo (una sorta di Prospero in miniatura).
La sorella di Justine, Claire, rappresenta la razionalità benevola.
La madre di Justine e Claire, Gaby, rappresenta invece la disillusione, l’amaro cinismo.
Il marito di Claire, John, rappresenta la scienza (fallibile).
Il datore di lavoro di Justine, Jack, simboleggia invece il desiderio di possesso e il cinico calcolo proprio degli uomini di potere spregiudicati.
Melancholia parla ampiamente della sintomatologia della depressione, dei suoi effetti, ma anche e soprattutto delle cause.
Justine incarna la figura del malinconico – depresso, in cui chiaramente sta avendo luogo il lavoro del lutto freudiano. A questo proposito, invito alla lettura del breve quanto illuminante saggio Caducità (1915) di Freud, per comprendere appieno di cosa si tratta. I sintomi più evidenti sono l’apatia, l’abulia, l’astenia, il sonno, un senso di svuotamento, l’assenza di desiderio (amoroso, affettivo, sessuale). La avvertiamo distante da tutto e da tutti: cammina come una sonnambula ‘accanto’ agli eventi (a cominciare dai festeggiamenti per il matrimonio), senza immergersi ‘dentro’ agli eventi. Tale distacco della sposa lascia tutti interdetti. Ma von Trier scarta saggiamente la scelta scontata di rendere Justine una malata incompresa, e gli altri personaggi delle figure insensibili e negative. Sono incapaci di comprenderla, di seguire il suo misterioso fluttuare, ma sono comunque visti come personaggi positivi.
Uno degli elementi più tipici della depressione è proprio l’assenza di senso, la perdita del senso delle cose.
Justine risulta come una candela spenta, incapace di provare emozioni per la situazione che sta vivendo (la celebrazione delle nozze), e il primo ad essere demolito da ciò è proprio il marito, che poco a poco si rende conto, senza però comprendere ‘perché’ tutto ciò stia accadendo.
L’abilità, il genio di von Trier risiede a mio giudizio nel fatto che nel film non si sfora mai nel piano del descrittivismo puro, del ‘didascalico’. Un regista poco avveduto avrebbe semplicemente descritto i sintomi della depressione e reso Justine una donna svogliata, inappetente, assonnata, assorta nei suoi pensieri, senza quell’aura di mistero, senza quella indecifrabilità che invece il regista danese riesce ad imprimerle.
Della sintomatologia di Justine e dell’impatto di questa sugli altri personaggi ho scritto.
Le cause invece si possono suddividere in due categorie: cause ‘terrestri’ e cause ‘celesti’.
Le cause terrestri sono rinvenibili, probabilmente, nella personalità della madre (una donna cinica e fredda, disillusa e amareggiata), che non ci è dato sapere se sia stato causa o effetto del fallimento del matrimonio tra lei e il marito, padre di Justine e di Claire.
Siamo indotti a pensare che questa crisi, questo fallimento possa aver condizionato gli equilibri interni di Justine, tanto da attivare un sentimento di disillusione identico a quello della madre.
Ma queste sono interpretazioni-intuizioni basate su un terreno incerto, scivoloso.
La causa ‘celeste’ è invece esplicata in modo totalmente evidente. Dapprincipio sembra sia Antares (della costellazione dello Scorpione) a catturare l’attenzione di Justine. Antares, pianeta luminosissimo, rosso (e proprio in quanto rosso, è stato chiamato Anti Ares, Antares, per differenziarlo da Marte, anch’esso rosso, com’è noto). Da taluni, Antares è visto come un ‘angelo caduto’, è bene ricordare anche questo.
Ma Jack, marito di Claire, l’esperto di pianeti interpellato per dare un nome alla stella che tanto sembra rapire la novella sposa, si ingannava. Nel corso della vicenda apparirà chiaro come quel pianeta non fosse in realtà parte della costellazione dello Scorpione, ma Melancholia, pianeta azzurro, misterioso. Il colore rosso che giungeva agli occhi dei personaggi (e dello spettatore) era dovuto probabilmente alla vicinanza di questo col Sole. Secondo i calcoli degli astronomi, Melancholia in quei giorni (nei giorni in cui si svolge la vicenda) avrebbe sfiorato ma non colpito la Terra. Ma il finale, che viene anticipato già nella prima parte del film in una sorta di Preambolo immaginifico girato con la tecnica dello slow motion, racconterà ben altra storia. Tale Preambolo, molto breve, molto ‘teatrale’ – sembra la videoclip di una regìa moderna di un’opera lirica, effettivamente – riassume per piccoli flash l’intero film. Probabilmente è proprio questa parte introduttiva, stilizzata, artificiosa, la parte che lascia più freddo lo spettatore. Il film vero e proprio è suddiviso in due capitoli. Il primo vede come protagonista la sintomatologia di Justine. Il secondo, di carattere più ‘fantascientifico’, se vogliamo, ha per protagonista l’avvicinarsi inesorabile di Melancholia alla Terra.
Qualcuno dei lettori ricorderà come di fatto nell’incisione di Durer da me citata all’inizio, nel cielo sia visibile una misteriosa meteora. Se generalmente la malinconia è collegata al pianeta Saturno (tanto che i malinconici, in larga parte artisti, hanno iniziato ad un certo punto della storia dell’umanità ad essere chiamati ‘saturnini’), esistono pur sempre anche delle varianti.
Va ricordato peraltro che il corrispettivo di Saturno per i greci è il titano Cronos (o Chronos), il tempo che divora tutte le cose che ha egli stesso creato.
L’idea artistica, il Konzept principale del film è che Melancholia abbia ‘stregato’ Justine. Un influsso celeste che ha colpito necessariamente prima di tutti un soggetto depresso, ma che col suo avvicinarsi alla Terra stravolge via via gli animi di tutti. Di influssi celesti è piena la letteratura pre-scientifica o pseudo scientifica, come ben sappiamo. Di questa credenza parlano, tra l’altro, studi molto importanti come Nati sotto Saturno di Rudolf e Margot Wittkower (1963) e Saturno e la malinconia di Klibansky, Panofsky e Saxl (1964), giusto per fare due soli nomi. Qualcuno tra voi forse si ricorderà come nell’Otello verdiano Jago esca con un’esclamazione che professa una volta di più tale credenza: “…come se un pianeta maligno avesse a quelli smagato il senno” (in Shakespeare Jago parla di “pianeta”, Boito aggiunge l’aggettivo “maligno”).
L’influsso celeste pervade Justine nell’anima e nel corpo. La rende una sorta di sonnambula. E’ una specie di possessione. La sorella Claire, del tutto ignara, cerca più volte di riportarla nel mondo del Reale e ai suoi doveri di moglie, di figlia, etc. A simboleggiare questo sprone, l’invito a cavalcare con lei nella tenuta (la stessa in cui si sono celebrati i festeggiamenti delle nozze, suppongo). Il cavallo è spesso considerato simbolo di dinamismo, di energia (oltre che di Libido). Non è un caso se nella prima pagina del Manifesto tecnico della pittura futurista del 1910, Boccioni, Carrà, Russolo, Balla e Severini citino proprio un cavallo.
Il cavallo viene contrapposto all’astenìa, abulìa e apatìa di Justine, quasi una terapia giocata sulla contrapposizione, sull’ossimoro.
Justine, a differenza di Claire, riesce a cogliere però delle realtà più profonde, tanto che si potrebbe parlare di un ‘animo sensitivo’ di Justine. Justine ben prima di Claire riesce a percepire l’imminente catastrofe finale. In effetti, il depresso ha spesso questa duplice tendenza: di essere meno a contatto con la realtà, ma di fare degli esami di realtà molto più puntuali dei non depressi.
Da questo Konzept di fondo, ogni spettatore può ricavare delle immagini-interpretazioni sue personali da ‘proiettare’ sulla vicenda.
Ad esempio, l’influsso così pervasivo ed annichilente del pianeta nei confronti della protagonista potrà essere avvertito da taluni come una variante psicologica della fascinazione per la malinconia.
O lo schianto di Melancholia sulla Terra (e quindi sugli esseri umani) come uno spostamento del sentimento distruttivo di Justine da se stessa verso l’umanità. Questo concetto della depressione come forma di odio ‘deviato’ è chiaramente espresso nel saggio Lutto e malinconia di Freud (del 1915): “L’autotormento del melanconico, indubbiamente colmo di godimento…significa il soddisfacimento di tendenze sadiche e di odio, che sono rivolte ad un oggetto e che, su questa via, hanno subito un capovolgimento sulla persona propria…per i malati è ancora possibile ottenere una rivincita sugli oggetti originari attraverso l’autopunizione e tormentare i loro cari mediante la malattia nella quale si sono rifugiati per non dover mostrare direttamente la propria ostilità nei loro confronti. Infatti, la persona che ha suscitato il perturbamento nei sentimenti del malato, e nei cui confronti è diretto il suo malessere, di solito è rintracciabile nella cerchia di persone più vicine al malato. Soltanto questo sadismo scioglie l’enigma di quella inclinazione al suicidio che rende così interessante la malinconia – e così pericolosa”.
Appunto per questo avevo in precedenza focalizzato l’attenzione sui caratteri dei genitori di Justine (in particolare della madre di Justine), e avevo parlato di ‘cause terrestri’ della depressione.
Freud parla di inclinazione al suicidio, e von Trier nel Preambolo del film crea un parallelo tra Justine e l’Ofelia shakespeariana di John Everett Millais (celebre dipinto della metà dell’800). Ma l’idea del suicidio a cui il regista fa cenno resta relegata nel solo Preambolo: quella forza distruttrice ‘individualistica’ viene commutata nella collisione catastrofica che coinvolgerà l’intero pianeta, l’intera popolazione degli esseri viventi (che tra l’altro Justine, da sensitiva, è convinta essere l’unica presente nell’intero sistema delle galassie).
Forse il dono più bello che von Trier ha voluto fare ai suoi spettatori è il capovolgimento tra ‘microcosmo’ e ‘macrocosmo’. La nostra era moderna è abituata a pensare che la depressione sia una malattia interna a noi stessi (microcosmo), qualcosa da ‘scacciare’, qualcosa di cui liberarsi, qualcosa anche da esorcizzare. E al massimo diamo la colpa al maltempo (qualcosa di esterno a noi, macrocosmo) quando ci sentiamo giù. Nel caso del film, tutta la colpa viene invece attribuita ad un pianeta (macrocosmo), una sorta di Dio davanti al quale l’uomo non può nulla. Tale Dio porta l’uomo a compiere dei ‘rituali’, dei sacrifici, in suo onore (la sonnolenza, lo svuotamento di sé, la perdita del senso delle cose, etc. etc.). Mentre il mondo della possessione ha qualcosa di indefinibile, di anti – geometrico, il mondo della ritualità è invece molto più a contatto con la numerologia, con la geometria, con la prevedibilità. La citazione dell’incisione di Durer dell’inizio acquista ora ancor più senso. Von Trier ci dona per l’appunto, attraverso il suo film, un cambio di prospettiva, forse utile per le nostre stesse vite. Perché nel momento in cui attribuiamo a qualcosa di esterno a noi la fonte delle nostre sofferenze (e indirettamente dei nostri rituali autodistruttivi), ci sentiamo sollevare di un peso.
Lo stesso discorso vale per un altro lavoro di von Trier, Nymphomaniac, successivo a Melancholia. Anche in quel caso, il regista metterà in evidenza la dicotomia fra geometrico e non geometrico, tra possessione e rituale. La protagonista della vicenda, affetta da ninfomania, è sopraffatta da un impulso (in questo caso, sessuale), che rappresenta la parte inaccessibile, incontrollabile, non geometrica, e per rendere tributo a quel Dio, si adopera in ben precisi rituali (che sanno molto di geometria, di numerologia, in modo quasi ossessivo).
La scienza, la numerologia, è quanto mai fallibile, di fronte alla Natura. Ce lo dimostra John, con la sua incapacità di prevedere la catastrofe. Sarà lui a cedere, a suicidarsi, quando comprenderà che tutto è perduto. La natura del depresso trasborda, fluttua in modi del tutto imprevedibili. Così è per Melancholia, che sfugge al calcolo, alla previsione.
Von Trier, che spesso nei suoi film conferisce alla musica un ruolo di grande rilievo (espressivo, psicologico…mai mera ‘atmosfera’, mai mero ‘contorno’ o sottofondo, mai mera citazione erudita fine a se stessa), attribuisce alle note di Wagner, precisamente al celeberrimo Preludio del Tristan und Isolde, una potenza sconfinata. La musica in questo caso, riesce a suscitare in modo perfetto quel senso di ‘sfuggire al calcolo’, quel senso di trasbordare imprevedibile della Natura. Il Tristano è del resto quel caso paradigmatico di prodotto culturale che ha voluto superare i confini, le ‘colonne d’Ercole’ dell’armonia (“armonia” come termine tecnico musicale), e della composizione. Il Tristano apre effettivamente le porte alle nuove armonie, ai nuovi linguaggi che si produrranno da lì in avanti in Wagner stesso e in buona parte dei compositori successivi. Ma di questo Preludio non va sottolineata solo l’ ‘emancipazione armonica e musicale’. Le pause molto pronunciate presenti nell’incipit, suscitano una sensazione di attesa e di mistero che a von Trier servono per iniettare nel cuore dello spettatore un senso di ‘perturbante fascinoso’ molto caratteristico.
E l’enfasi di certi passaggi musicali, come lo sforzato – Più Forte (F) che diventa Fortissimo (FF) e poi Piano (P) nel giro di appena due battute (battute 17 e 18 della partitura), sempre del Preludio, rimanda mirabilmente ad un senso di passionalità prorompente nascosta dall’ inerzia (molto appariscente) del depresso. Come spesso succede in von Trier, l’imprestito di una musica per un film non è motivata solo dal contenuto, dalla componente ‘culturale’ – nel caso specifico, la trama del Tristano e Isotta – ma da elementi molto più subdoli, impalpabili, prettamente musicali, che il regista genialmente sente intimamente attinenti con il proprio lavoro.
Se un Verdi (citato prima per via dell’Otello) solo in alcuni mirabili casi è capace di trascendere l’umano e di proiettarsi nella dimensione dell’interiorità in senso puro (vedi per esempio alcuni passaggi dell’Otello, del Simon Boccanegra, del Don Carlos, del Macbeth), Wagner è sicuramente un compositore capace di uscire dalla dimensione terrestre, terrena, privata, umana, e proiettare l’ascoltatore in una dimensione altra.
Nel caso specifico del Tristano, si avverte in modo molto potente il contrasto tra mondo esteriore, pubblico (molto concreto) e il mondo interiore, impalpabile, dei due protagonisti. Questo mondo interiore, che non è solo ‘anima’, non è solo ‘psicologia’, e non è neppure solo ‘anima’ e ‘psicologia’ sommati assieme, ha un contatto diretto, privilegiato col Macrocosmo, con tutto ciò che esula dal mondo sensibile e visibile, per cui, anche con tutto ciò che va oltre il nostro pianeta. E’ un mondo destinato a sconfinare nell’altrove, probabilmente già presente nell’altrove. E’ il filtro d’amore a mettere in chiaro questo fenomeno, è l’amore a mettere in evidenza tutto questo.
In definitiva, come un po’ in tutti i film di von Trier, c’è in Melancholia un sentimento di compartecipazione autobiografica. Sappiamo che il regista ha attraversato importanti fasi di depressione, e il film è stato concepito e modellato anche sulla base delle sue proprie esperienze personali.
Anche un piccolo gioco numerico ce lo fa capire: nel corso del film si parla del gioco dei fagioli (i partecipanti al banchetto di nozze devono indovinare quanti fagioli sono contenuti nella bottiglia). Il numero da indovinare è ‘678’. Tali numeri, che tra l’altro appaiono singolarmente nel quadrato magico di Durer, se sommati assieme formano il numero 21. L’anno di nascita di von Trier è 1956, i cui numeri sommati assieme danno proprio 21.
Il cast degli attori contribuisce ad infondere al film un senso di profondità davvero importante. A cominciare dalla protagonista, Kirsten Dunst, abilissima nell’impervio ruolo enigmatico, attrice che intelligentemente riesce ad evitare di essere monocorde ma al contrario a creare in ogni differente scena una calibrata atmosfera emotiva.
Le fa da mirabile spalla Charlotte Gainsbourg (la sorella Claire), abile non solo nel non adombrare la figura della protagonista, ma anche nel tracciare la parabola discendente della persona ‘sana’, che da figura protettiva e razionale diventa inesorabilmente ella stessa vittima del pianeta.
Azzeccata pure la prova di Alexander Skarsgard (il giovane sposo), spontaneo e sensibile quanto basta.
I genitori delle due sorelle, John Hurt e Charlotte Rampling, pur nella loro essenzialità, riescono a imprimersi abilmente per professionalità e a toccare l’anima dello spettatore.
Kiefer Sutherland (marito di Claire), risulta interprete nobilissimo e versatile.
Stellan Skarsgard (tra l’altro padre di Alexander Skarsgard), ‘affezionato’ interprete di von Trier, riesce a padroneggiare benissimo il ruolo dell’odioso datore di lavoro despota e calcolatore.
Oltre ai testi già citati (di Freud, di Saxl, Panofsky, Klibansky e dei due Wittkover), per chi fosse interessato all’argomento ‘malinconia’ un riferimento va sicuramente fatto quantomeno anche al famoso Anatomia della malinconia di Robert Burton (1621), al saggio di Eugenio Borgna Malinconia (1992), e a Le lacrime del male di Aldo Carotenuto (1996).