Vivere è la storia di una bella studentessa di storia dell’arte di Galway (costa occidentale dell’Irlanda), di nome Mary Ann, arrivata in Italia per sostenere un esame e fare la ragazza alla pari con una famiglia di Roma. Baderà a Lucilla, la bimba avuta da Luca Attorre e Susi. Durante la sua permanenza entrerà da spettatrice (ma anche da protagonista) nella realtà di questa famiglia, e naturalmente non mancherà di cogliere molte scomode verità sull’Italia di oggi.
Il quadro dei personaggi offerto da Francesca Archibugi è molto vario, forse eccessivamente vario.
Luca è un giornalista freelance che spudoratamente e artificiosamente ‘droga’ le sue notizie per renderle sensazionali; è inoltre un marito in crisi, depresso, immaturo. Un azzeccagarbugli abbastanza bidimensionale, senza profondità.
Susi dal canto suo è una ballerina frustrata grezza e ingenua.
Mary Ann è una ragazza cattolica un po’ ingenua e un po’ scaltra, matura ma anche fragile, con un certo lato patetico (riflesso anche nel suo modo di parlare), che tutto sommato riesce a toccare certe corde intime dell’animo dello spettatore.
Lucilla è una bambina asmatica grave con continue crisi respiratorie.
Ma poi ci sono anche l’ex moglie di Luca, Azzurra, e suo figlio Pierpaolo, nonché il nonno di Pierpaolo, l’avvocato De Sanctis; e ancora: un medico di grande umanità, il Professor Marinoni, e un vicino di casa un po’ ambiguo, sgradevole fisicamente e molto appartato (spettatore dell’intera vicenda assieme a noi spettatori).
Il ritratto che la Archibugi fa dell’Italia d’oggi è francamente molto desolante. Vengono certo descritte le umane passioni, le virtù (poche) ma anche le debolezze e i vizi (soprattutto) di un Italia quanto mai difettosa, debole, svampita, inerme. “L’ombra di se stessa”, si potrebbe dire, se non fosse che è un ritratto abbastanza realistico almeno di una parte dell’Italia d’oggi.
Se Luca è un giornalista scorretto, il nonno, l’avvocato De Santis, dietro ad una facciata seriosa ed ‘istituzionale’, nasconde una natura del tutto impensabile e scandalosa.
Non sono meno ‘colpevoli’ le tirate di droga di Pierpaolo e dei suoi giovani amici (che cercano il classico ‘sballo’).
Era abbastanza scontato pure che nascesse un flirt passionale tra Luca – già impegnato con Susi, per l’appunto, ma ad un certo tratto della storia salta fuori pure una seconda donna – e la giovane e bella studentessa straniera. In un secondo momento, una volta compreso che quella segreta liaison non avrebbe veramente portato a nulla, Mary Ann opta per troncare con Luca e devia verso un rapporto più sano e moralmente ‘inattaccabile’, ossia con il giovane Pierpaolo (figura maschile fino a quel momento da lei del tutto ‘scartata’, perché si sa, le ragazze amano solitamente gli uomini più adulti, quanto meno anagraficamente più adulti).
Ma anche un altro tradimento prende corpo poco per volta: Susi si innamora di quel medico umano e comprensivo che si è preso a cuore la situazione di Lucilla. Ovviamente anche Marinoni da parte sua si lascia andare e la ricambia animatamente.
La storia dell’arte studiata da Mary Ann entra in gioco, purtroppo, solo in sporadici momenti. Si vedono per pochi istanti Santa Maria della Pace, la Salomè di Guido Reni (oggi visibile alla Galleria Corsini). Un riferimento un po’ più ampio viene fatto alle due chiese di Roma note come “gemelle” (Santa Maria dei Miracoli e Santa Maria in Montesanto), nella scena in cui Mary Ann, con sdegno, piena di rabbia contro Luca, esclama: “Non sono gemelle, è un imbroglio la genialità italiana!” (facendo riferimento al fatto che vengono fatte passare per gemelle, ma risultano asimmetriche e palesemente differenti). Come se il modo di fare poco trasparente e pulito del giornalista Luca avesse a che fare con l’estetica del Bernini e di Carlo Fontana (che hanno progettato per l’appunto le due chiese).
Ed è un peccato che i riferimenti alla storia dell’arte in fin dei conti siano relegati a questi fugaci momenti del racconto. Il film avrebbe senza dubbio acquisito un valore diverso se fosse stato permeato di un ‘fascino artistico’, evocato in questo caso solo alla lontana.
Vivere risulta al contrario un po’ greve, quasi del tutto privo di fascino, tutto incentrato com’è sulla banalità delle vicende umane, qui quanto mai ‘terrene’e prosaiche. Quando Mary Ann – in uno dei momenti forse più significativi del film – chiede a Luca se crede in un destino già scritto oppure se pensa che il libero arbitrio abbia una sua incidenza sulla realtà, e Luca mostra smarrito di non aver compreso la domanda (facendo così con lei la figura del totale sprovveduto), la Archibugi fa intendere come di fatto i personaggi della vicenda siano ascrivibili tutti, o quasi, ad un livello non solo morale ma anche culturale medio – basso, personaggi mediocri, che faticano ad impegnare l’intelletto, personaggi ‘che beatamente si accontentano di sapere ciò che sanno’, senza una spinta a crescere, senza la minima curiosità di ampliare la propria cultura. Mary Ann aveva deciso di gratificare sessualmente il padrone di casa, ma a quel punto scopre i suoi limiti intellettivi (dopo aver colto già la sua bassa moralità) e se ne disaffeziona completamente.
Ad accrescere questa sensazione di mediocrità dei personaggi è il taglio eminentemente televisivo che la Archibugi dà, sia a livello di riprese, quanto di dialoghi, quanto di fotografia, senza quel respiro e quella profondità più cinematografici che avrebbero senz’altro giovato a questo lavoro.
Nella chiusa finale il vicino di casa (che appare “ambiguo” per il suo carattere mellifluo e affettato), fa il discorso probabilmente più toccante dell’intero film, rivolgendosi alla moglie di Luca: “Vi vedo piangere, vi vedo ridere, vi vedo litigare, vi vedo vivere. Io vi invidio!”. E quanta profonda umanità c’è in quel “vi invidio!”. Laddove si comprende il senso del titolo (Vivere, appunto), e dove si esprime il concetto che vivere è sempre meglio che esistere, come invece è toccato a lui, sgradevole fisicamente, e solitario.
Alla fine, sono il sentimento di nostalgia e quello del rimpianto a pervadere lo spettatore.
Si comprende come Mary Ann ed il vicino (figure apparentemente del tutto distanti tra loro) rappresentino due volti della bellezza dell’animo. Due modalità dell’essere che potrebbero servire da modello, da figure ispiratrici per tutti noi, anche senza scomodare per forza la religiosità di Mary Ann. La Archibugi sembra in definitiva voler dire, non senza un minimo di retorica, che la nostra società in difficoltà avrebbe bisogno di figure come queste, piene di luce e capaci di vederci dentro, per illuminare le coscienze e il cuore di tutti noi.
La prospettiva d’osservazione suggerita dal titolo, furbescamente generico e ‘generalista’ (tutto ciò che viene qui raccontato è ‘vita’ è ‘il vivere’), sembra quasi il tentativo di voler stornare il pubblico e fugare qualsiasi possibilità di collegamento col film d’esordio della stessa Archibugi, Mignon è partita (dell’oramai lontano 1988), che molto all’epoca ci aveva commosso; ma in realtà sono molti gli ingredienti in comune tra i due film, e l’uno andrebbe visto (o rivisto) alla luce dell’altro.
Il film, presentato alla Mostra del cinema fuori concorso, e da me visto in Sala Giardino il 31 agosto scorso, ha ricevuto molti applausi, per quanto non brilli di originalità e accusi alcuni limiti evidenti. Ma sicuramente è un film che ‘vibra’ con una certa forza. Esso vede per protagonisti una spontanea ma un po’ greve (peccato!) Micaela Ramazzotti (Susi), un (po’) più efficace Adriano Giannini (Luca), la bella e intensa Roisin O’Donovan (Mary Ann), una sensibile Valentina Cervi (Azzurra), Andrea Calligari (Pierpaolo), un educato ed intenso Massimo Ghini (Marinoni), un piuttosto bravo Enrico Montesano (Avvocato de Sanctis) ed Elisa Miccoli (Lucilla).