La sera del 9 aprile 2019, è stato proposto al Teatro a l’Avogaria di Venezia il monologo Non tutto il male viene per nuocere, ma questo sì, di e con Giulia Pont, con la regìa e la collaborazione drammaturgica di Carla Carucci. Nel ‘team’ anche la Compagnia Crack24.
Giulia, classe 1986, torinese, studia con un numero considerevole di maestri, tra i quali André Casaca, Eugenio Allegri, Rita Pelusio, Laura Curino, creandosi così delle solide basi e consapevolezze, che la portano al diploma dell’Atelier Teatro Fisico di Philip Radice.
Nel 2017 ha conseguito il diploma presso la scuola di perfezionamento Shakespeare school e ha iniziato anche a vincere qualche premio importante, non solo in qualità di attrice ma anche di autrice di testi. Ha inoltre studiato canto (ad un certo punto dello spettacolo a cui ho assistito, ha sorpreso la platea con una notevole voce da soprano) e quel bellissimo strumento che è la fisarmonica.
Il monologo, intelligente, irriverente, anticonformista, pazzo, amaro, sarcastico, con un pizzico di ‘peperoncino’, bisogna riconoscere che molto ha divertito il folto pubblico in sala, peraltro coinvolto attivamente in gags alquanto spiritose. Infatti, più che di “monologo”, bisognerebbe parlare di “spettacolo interattivo”. Il lavoro, costruito quindi in parte sull’improvvisazione, ‘mordendo’ senza affondare troppo i denti, è prima di tutto un’amara riflessione sulla vita di un’ attrice trentaduenne. In quanto figlia, Giulia è vittima di una madre apprensiva, soffocante, e di un padre insensibile. In quanto paziente, è vittima di uno psicologo del tutto ‘distante’ e stupidamente sofisticato (a Giulia basta simulare un’erra moscia per sottolinearne la ridicolaggine). In quanto aspirante attrice, è vittima di un sistema impietoso e ingiusto che non le ha permesso di diventare ‘qualcuno’. Si potrebbe continuare, ma lascio ai futuri spettatori scoprire lo spettacolo meglio da sé. Ad una società fatta in parte di ‘vittime’ (esattamente come la protagonista che parla in prima persona) che ancora ad una certa età non riescono a sbocciare e a crearsi un posto nella vita, e in parte di ‘carnefici’ arroganti e spregiudicati che s’impongono spesso non certo grazie ai propri meriti, un monologo come questo insegna una volta di più a scrollarsi di dosso certi pesi (la vocina Ugo, che ad alcuni potrà ricordare le note leggi di Murphy di Arthur Bloch) e a ridere o perlomeno a sorridere di certi funzionamenti ‘malati’ dell’ epoca che stiamo vivendo. E alla fine, il momento catartico: viene chiesto agli spettatori di lanciare pomodori contro la povera performer…buando, o gridando “ritirati!”…
A tal proposito, diciamo subito, Giulia, che nello spettacolo Non tutto il male viene per nuocere, ma questo sì, nessun pomodoro verace o di conserva è stato maltrattato.
Si! Confesso che per qualche replica ho usato dei pomodori veri ma poi sono passata a dei più comodi ortaggi di stoffa. Tra l’altro sono artigianali, fatti uno ad uno con le mie mani e quelle di una cara amica che ha trascorso un pomeriggio intero a giocare a fare la scenografa insieme a me!
Toglimi una curiosità attinente proprio questo discorso: parlo da frequentatore di spettacoli…tu ci scherzi coi “buuuu”, ma basta poco per accorgersi come i “buuuu” possano verificarsi effettivamente nel Teatro d’opera, mentre negli spettacoli del Teatro di parola (intendo quello dagli anni ’80 in poi) di norma non si sente il pubblico disapprovare o buare…come ti spieghi questa disparità di consuetudini (o di leggi implicite)?
Credo che la risposta stia nel fatto che la musica ha dei parametri di giudizio più oggettivi rispetto al Teatro di parola e anche nel fatto che il pubblico dell’opera (soprattutto delle prime, che sono le repliche più buate) è tendenzialmente composto da esperti del settore e intenditori che spesso, conoscendo molto bene l’opera, disapprovano l’interpretazione del regista. Comunque qualche “buuu” in più farebbe bene anche al teatro di parola, soprattutto quando si tratta di soldi pubblici!
Quando hai scoperto di voler fare teatro (e/o di essere portata) e perché?
Ho sempre desiderato fare teatro, fin da piccola. Ho un ricordo preciso dei tempi delle elementari: io che prego, ripetutamente, la maestra di farmi fare la protagonista del saggio di fine anno. Alla fine ha scelto un’altra…! Credo che la passione me l’abbia passata mia madre che ne aveva fatto il suo amato hobby. Da piccola mi “somministrava” valanghe di film in bianco e nero e insieme sognavamo di far parte di quel mondo. All’inizio ho sperimentato vari generi, poi ho capito che la mia dimensione era quella della comicità.
Che effetto ti fa esprimerti e mostrarti davanti ad un pubblico?
Prima di entrare in scena sento sempre un misto tra paura ed eccitazione, poi una volta sul palco lavoro per creare una connessione col pubblico e stabilire un’intesa, un’intimità. Una volta creato il legame mi sento forte, e sicura di poter liberare parti di me che nella vita quotidiana bisogna tenere a bada! E’ molto liberatorio stare in scena e poi è una specie di overdose di affetto!
Non ti chiedo banalmente cosa ci sia di autobiografico in questo spettacolo. Ti va di dirci piuttosto come sei nel temperamento?
Di base sono una timida, mi ci va un po’ per prendere confidenza…ma del resto sono piemontese! Più volte, nel presentarmi come comica, mi è capitato di sentirmi rispondere “Non l’avrei mai detto che tu sapessi far ridere!” Devo dire che non l’ho presa tanto bene…
In genere le battute hanno sempre un bersaglio: o l’interlocutore, o un oggetto ‘altro’ (tra parentesi, un dardo è stato scagliato pure contro lo stesso Teatro a l’Avogaria), oppure se stessi. Nel tuo monologo vengono contemplati tutti e tre i casi, anche se l’autoironia ha senza dubbio un peso preponderante.
L’autoironia ha un ruolo fondamentale nei miei spettacoli e anche nella mia vita! Credo di aver imparato ad usarla per sopravvivenza durante i duri anni dell’adolescenza…
Ci sveli un piccolo segreto? Come si impedisce che l’autoironia trasbordi e diventi svilimento di sé, autodenigrazione?
Credo che nel momento in cui smettiamo di autocompatirci e iniziamo a vederci da fuori, mettendo un po’ di distanza tra noi e quello che ci fa soffrire, possiamo passare dall’autodenigrazione all’autoironia.
Autoironici si nasce o lo si può anche diventare nel tempo?
Un po’ ci si nasce ma, per fortuna, si può imparare ad esserlo. L’autoironia mi ha salvato in tante occasioni e mi ha aiutato ad uscire da tanti malumori! Tra l’altro può essere anche un ottimo strumento nel lavoro dell’attore, perché può sbloccare certi meccanismi di chiusura. Me l’ha insegnato Cristina Pezzoli, grande regista e formatrice che ho incontrato nella mia formazione presso la Shakespeare School.
Nello spettacolo metti in gioco diverse figure (la madre, lo psicologo ossia il dottor Matta, il partner di scena che interpreta Romeo, etc.), ma a tre quarti circa della performance emerge Ugo, ossia la vocina interiore rappresentante l’insicurezza che minaccia di essere presente in ognuno di noi. Ognuno ha il suo Ugo, il suo critico interiore, la sua voce ‘autosabotante’. Già Jacob Levy Moreno nel suo psicodramma aveva ben dimostrato come siamo fatti di tante voci interiori, e taluna è proprio involontaria. Rimando alla lettura del paragrafo Confrontarsi col critico interiore contenuto in Scrivere per crescere di Deena Metzger (Astrolabio). Tu ti sei divertita a chiedere a membri del pubblico di scegliere un nome per questa loro parte ‘nemica’. Cosa noti quando metti alla prova la creatività delle persone?
Noto sempre una gran voglia di partecipare: quando si tratta di trovare un nome per il proprio critico interiore i più si sbizzarriscono! Tra l’altro, i momenti di interazione col pubblico sono i miei preferiti perché sono quelli in cui nasce l’inaspettato, in cui ho la possibilità di improvvisare e il pubblico gioca insieme a me.
I monologhi dello spettacolo comico sono molto diffusi nei teatri, ma non tutti sono interattivi come il tuo. Gli spettatori che entrano in sala per assistere alle tue performances vengono a scoprirlo in genere quando sono già seduti comodi sulla loro bella poltrona: oramai è troppo tardi per scappare.
Si, mi piace molto che il pubblico partecipi e interagisca. E’ una possibilità che ho iniziato a sperimentare in “Ti lascio perché ho finito l’ossitocina” e non ne posso più fare a meno! Credo che questo desiderio di interazione arrivi dall’aver frequentato, nei miei primi anni di formazione, molti artisti di strada che usano tantissimo questa modalità.
Rispetto al tuo precedente spettacolo, appunto Ti lascio perché ho finito l’ossitocina, quali sono state le tue esigenze e i tuoi desideri nell’abbozzare e poi nel definire forma e contenuto di questo nuovo spettacolo?
Tra questi due monologhi sono passati diversi anni perché ho avuto l’esigenza di far maturare alcune idee e di sentire l’urgenza di portate in scena alcuni temi. Volevo parlare infatti di argomenti che conosco bene, che, in qualche modo, hanno fatto parte della mia vita. Come forma ho scelto la più semplice possibile: un monologo con una scenografia minima e pochissime esigenze tecniche così da portare questo spettacolo dappertutto (dai teatri ai salotti di casa ai bar). Ho voluto incentrare tutto il lavoro sul testo, l’interpretazione e il rapporto col pubblico e mi sono ispirata un po’ agli stand-up comedian americani, che mi affascinano molto, pur rimanendo fedele ad un mio stile personale.
In che senso e in che modo hai avuto bisogno di una regìa ‘esterna’ per questo spettacolo (nella fattispecie Carla Carucci)? Ti sarebbe stato possibile curare anche la regìa?
C’è chi riesce a dirigersi da solo… per me è impossibile. Ho bisogno di un professionista che da fuori, con lucidità e oggettività, veda il lavoro e dove questo può andare. Nel caso di un monologo come “Non tutto il male…” il lavoro del regista è stato più che altro sull’interpretazione. Carla Carucci è molto brava a capire cosa può dare un attore, a guidarlo, a liberarlo dai suoi blocchi, a spingerlo in direzioni creative, e a portare ritmo allo spettacolo. Mi ha aiutato anche nella redazione del testo e, da non sottovalutare nelle pause pranzo delle prove, è un’ottima cuoca!
E quale è stato l’apporto della Compagnia Crack24, nello specifico?
La Compagnia Crack24 è stata il mio primo pubblico e il mio primo critico. Poi mi ha dato supporto nella comunicazione e tanto affetto! I membri di Crack24, però, come cuochi lasciano un po’ desiderare…
Il tuo spettacolo in senso sociologico descrive una situazione reale, quella della società di oggi…“anni duemila”, o “2.0”. Una società in crisi, malgrado i vani tentativi di descriverla come una società forte, dedita al progresso, al successo, e di bell’aspetto. Oltre a descrivere uno spaccato di realtà, e oltre ad invitare le persone all’autoironia, il tuo lavoro può anche essere ‘utile’ in qualche altro senso e modo? Il teatro può fare qualcosa di serio per cambiare qualcosa?
Dopo aver visto Non tutto il male… molti spettatori mi hanno riferito di essersi sentiti alleggeriti e meno soli. Il teatro può essere terapeutico perché può aiutare ad accettarci, ad accettare chi è diverso da noi e, poi, aumenta la nostra sensibilità verso gli altri. Credo che a certi potenti farebbe bene iscriversi ad un corso di teatro!
Nel momento in cui fai entrare in gioco i genitori della protagonista – per inciso, c’è un motivo per cui la madre viene messa molto in rilievo e il padre molto meno? – corrobori la teoria (non ben vista da tutti…ci sono anche gli antifreudiani) secondo cui gli input (positivi o negativi che siano) derivati dai genitori condizionano talvolta in modo considerevole (sul versante negativo, in senso anche invalidante e irreparabile) l’intera vita dei figli. Tu che consiglio daresti ad un figlio oggi per non farsi danneggiare da una madre come quella della protagonista?
Sì, la madre attualmente è molto più in rilievo nel testo, ma abbiamo in programma di sviluppare un po’ di più anche la figura del padre… Sappiamo di averlo un po’ trascurato!
A un figlio con una famiglia complicata consiglio di trovare al più presto la propria indipendenza, sotto tutti gli aspetti possibili: questo aiuta molto a distaccarsi da certi malfunzionamenti e a trovare la propria forza interiore e il proprio equilibrio. Io, appena ho iniziato ad avere qualche lavoretto, sono andata a vivere da sola e sia la mia salute che i i rapporti coi miei sono molto migliorati!
In almeno un paio di punti fai un garbato cenno agli inevitabili transfert, intrighi se non proprio agli amori che talvolta si vengono a creare all’interno di una troupe di teatro (non sono pochi gli amori nati sul set di tanti film, del resto). Secondo te, in senso molto pratico, questi accadimenti possono essere più un rischio o più una risorsa positiva per l’allestimento e il prodotto finale che si offre al pubblico? Scorre un’energia migliore se ‘capita qualcosa’ dietro le quinte?
Dipende…! Personalmente, quando è scoccata la scintilla durante un’allestimento, la mia concentrazione per il lavoro è molto diminuita quindi non l’ho trovato molto produttivo! Credo che invece possa essere molto stimolante lavorare con il proprio partner consolidato. Certo, se si discute sul lavoro si rischia di portare “maretta” anche a casa, ma trovo molto romantica l’idea di costruire un progetto di vita e lavoro insieme al proprio partner.
Svelaci qualche anteprima: prossimi progetti come autrice e prossime performances a teatro
In estate sarò in scena in Piemonte, in Liguria, in Lombardia e in Toscana sia con i miei due monologhi sia con la commedia “Effetti indesiderati anche gravi”. Come autrice, ho in mente uno spettacolo per un pubblico di adolescenti che affronterà alcuni temi delicati per quell’età, ma ci vogliono ancora un po’ di mesi di gestazione…