Ha ricevuto molti applausi il lungometraggio da me visto in Sala Giardino durante la Mostra del Cinema di Venezia The end of love di Keren Ben Rafael, israeliana di Tel Aviv (ma che vive anche a Parigi), alla sua seconda prova come regista, dopo Vierges (2018).
Il lavoro della Rafael è stato proposto per la precisione nella sezione Biennale College Cinema.
La storia, molto lineare e compatta, è quella di Julie e Yuval – lei francese, lui, fotografo di guerra, di Tel Aviv – che vivono a Parigi con un bimbo nato dal loro amore. La storia si svolge nel 2015, o poco dopo, dal momento che si fa riferimento alla strage del Bataclan come fatto recente. Le vicende politiche, soprattutto quelle che minano Israele, patria della regista, incidono in parte sulla vicenda, ma sono soprattutto ‘sfondo’.
Yuval deve tornare in patria per prendere un visto, e per comunicare tra loro, i due amanti usano le videochiamate. Il rapporto, come già preannunciato nel titolo, inizia a sfaldarsi fin da subito. Lo sappiamo, è sempre molto difficile mantenere un equilibrio quando un rapporto d’amore necessita di essere vissuto a distanza. A maggior ragione in tempi in cui i rapporti di coppia sono diventati molto più fragili di un tempo. All’inizio è lei a mostrare cedimenti e ad ingelosire Yuval (sappiamo bene come l’istinto femminile cozzi per sua natura contro l’Ego e la possessività maschile, quanto mai di questi tempi), e malgrado ciò, Yuval appare a Julie ‘opprimente’, ‘pesante’. Poi, dopo che la situazione sembra si sia riassestata, è Yuval che si mostra indeciso a tornare da Julie e dal figlioletto (anche per un presunto ravvicinamento da parte di lui con una vecchia fiamma).
Il film, che parla in modo molto efficace dell’attuale crisi dei rapporti di coppia, con le sue fluttuazioni anche ambigue e misteriose, dispone nella sua tavolozza espressiva di vari registri, dalla dolcezza all’inquietudine, dal risentimento alla drammaticità, dal senso di colpa alla tristezza, dalla gelosia alla tenerezza, dalla tensione a momenti di maggiore leggerezza ed ironia.
La regista opta per non mettere in rilievo un registro a discapito degli altri, ma preferisce piuttosto illustrare in modo perfettamente realistico tutti gli stati d’animo che è verosimile attraversino le due parti di una coppia, il cui legame viene messo a repentaglio dalla distanza fisica (ma la distanza fisica non è propriamente l’unica causa della loro crisi). Apprezzabile anche il fatto che le responsabilità della crisi vengano spartite in parti uguali e non ci sia un addossamento della colpa contro una delle due figure in particolare. In senso molto realistico, si potrebbe commentare, dal momento che è abbastanza raro che una crisi dipenda solo da uno dei due.
Malgrado ciò, si esce dalla sala con un profondo senso di compassione per una coppia che non è riuscita, forse, a salvare quell’amore prezioso da cui era iniziato tutto (prestate ben attenzione nell’interpretare il finale!).
Il lavoro pensato dalla Rafael è quasi interamente basato sulle videochiamate, per cui il volto e il busto dei personaggi appare quasi costantemente di fronte allo spettatore proprio come se fosse lui il destinatario della videochiamata. Ma gli sguardi dei personaggi non sono mai ‘invasivi’ verso chi osserva il film, c’è una sorta di cautela da parte della regista nell’impedire tale effetto. L’espediente permette piuttosto di ‘attivare’ costantemente lo spettatore e di innescare importanti processi di identificazione.
Malgrado questo continuo e diffuso uso della tecnologia nel film, non si pensi a The end of love come un film semplicisticamente ‘modernista’ appartenente a quel filone inaugurato (forse) da C’è posta per te di Nora Ephron (film ‘cult’ del 1998 con Tom Hanks e Meg Ryan, ispirato ad un lavoro di Lubitsch del 1940). La tecnologia in The end of love serve piuttosto a mettere in risalto le umane passioni, che si manifestano non solo attraverso la parola, ma anche attraverso gli sguardi (verso un’identità virtuale), le espressioni facciali, la mimica del corpo, gli atteggiamenti, le azioni e anche le sparizioni (molta parte del film si gioca sulla dialettica ‘presenza – assenza’) davanti alla webcam.
Il film è in buona parte incentrato su tali continui movimenti di allontanamento e di riavvicinarmento, ma non sempre è dato sapere cosa li giustifichi alla radice, malgrado tutte le autogiustificazioni espresse a parole dai due personaggi protagonisti. In effetti, il film è anche una riflessione sulla “parola pronunciata”, veicolo fallace e ambiguo, col quale ci si può mettere a nudo tanto quanto ci si può nascondere. A giorno d’oggi la menzogna (da usare con scaltrezza) è divenuto uno strumento quasi indispensabile per difendere se stessi, per sopravvivere, e in certi casi anche per preservare un rapporto. La stessa abilità ‘affabulatoria’, che può rendere una coppia quanto mai complice e affiatata nel mentire (anche in modo ludico) ‘contro’ le persone che stanno al di fuori del loro speciale e sacro ‘terreno recintato’, nel momento in cui essa viene impiegata anche tra e contro i membri stessi della coppia, rivela che è in corso un cortocircuito, che qualcosa nel rapporto si è guastato. E la cosa si fa veramente drammatica quando la persona ignara di essere stata tradita non riesce più a distinguere se le parole che sente pronunciare dall’amato (o dall’amata) sono menzognere o sincere. L’istinto molto affinato che un tempo portava al discernimento, inspiegabilmente si appanna, l’amante prima ingannatore e complice, non riesce ad un certo punto più a rendersi conto di essere a sua volta ingannato.
Il fatto che spesso non sia possibile cogliere le cause di tali avvicinamenti ed allontanamenti (che suonano alla fin fine un po’ capricciosi) tra i due personaggi protagonisti, anziché conferire forza al film, gliene sottrae.
Tuttavia, The end of love è anche un lavoro capace di imprimersi nel cuore dello spettatore, soprattutto grazie alla bravura e alla preziosa sensibilità dei due attori protagonisti, Judith Chemla (che per il suo fascino e per una vaga somiglianza con un’attrice al momento più affermata di lei potrebbe essere definita ‘la piccola Juliette Binoche’), sicuramente una delle più belle attrici della Mostra 2019, e Arieh Worthalter. Francese lei (nata ad un passo da Parigi), franco-belga lui, entrambi classe 1985, ed entrambi anche attori di teatro oltre che di cinema (cito solo alcuni titoli: la Chelma è stata la protagonista di Une vie di Stéphane Brizé, del 2016, mentre Worthalter compare in svariati film quali Marie Curie del 2016 e Girl del 2018).